Le Contrade

La Flora

E’ la contrada in cui presumibilmente avvenne lo scontro tra le milizie della Lega e quelle di Federico Barbarossa aldilà del territorio tra Ponzella e Mazzafame.
L’antica origine di borgo contadino è conservata nel nome di un complesso di costruzioni rurali denominate Cascina Flora. In origine poche case presumibilmente attorniate da mura di protezione caratterizzavano il luogo, più tardi una ricostruzione modesta riprende l’impronta di una merlatura che orla su due lati il muro della Cascina Flora, oggi scomparsa.
Il nome è la derivazione ultima, deformata in successivi passaggi, di contrada dei fieri. Tra ‘600 e ‘700 diventa la contrada dei fiori, così denominata per la bellezza delle sue dame fulgide di rugiadoso splendore. In seguito al trascorrere degli anni nella dura fatica per il lavoro creatore, la nuova popolosa contrada trova il più appropriato, anche se meno gentile, appellativo di contrada dei floridi. La storpiatura di pronuncia e la velocità di parlata ne hanno fatto scaturire il nome Flora, oggi comunemente intesa come fiori.
La leggenda vuole infatti che in quel Maggio lontano le donne del borgo avessero accolto con un lancio di fiori in segno d’onore, i combattenti della lega, reduci dallo scontro d’armi vittorioso. Una versione molto più gentile narra che nella notte dei tempi la dea Flora apparisse ogni anno in questi luoghi, all’inizio della primavera, con la cornucopia colma di viole, primule e margherite da spargere sul verde tenero dell’erba novella.
Una volta giunse nella nostra zona molto in ritardo: era alta e il grano biondeggiava pronto da mietere. Flora aveva già sparso i suoi fiori in lungo e in largo sulla terra: ne erano rimaste solo due varietà, ma dai colori brillanti e la dea li versò tutti sui campi della Battaglia. Sbocciarono fiordalisi azzurri e papaveri rossi.

San Bernardino

Il nome deriva dall’antico oratorio campestre dedicato a San Bernardino che, durante la sua vita, viaggiando e predicando, era passato da queste parti. In tempi remoti la cappella si trovava con ogni probabilità sulla via Valignana, che conduceva dal centro della città ai confini del Seprio. Attualmente nascosta tra i campi, la chiesetta è stata oggetto di accurato restauro negli anni settanta ad opera della contrada e della civica amministrazione ed è stata riaperta solennemente al culto nel 1977.
Le leggende sono varie. Una è legata agli orsi, che avrebbero percorso queste campagne e rapita una donzella. Un’altra parla di un antico capitano che avrebbe messo a morte un’innocente donzella, se le campane non si fossero messe a suonare da sole dando l’allarme con i rintocchi a martello. Entrambe terminano con la descrizione della veste candida della fanciulla, arrossata in parte dal sangue di alcune ferite.
Forse gli orsi sono frutto di fantasia, ma certamente i lupi infestavano un tempo i boschi intorno alla chiesetta e di sicuro erano il terrore dei contadini, preoccupati per il loro bestiame e delle madri spaventate dall’idea che i figli potessero essere feriti o, peggio ancora, divorati dalle belve feroci.
Per certo si sa, da documenti dell’epoca, che nel 1642 fu ripresa l’usanza di celebrare presso l’oratorio campestre la festa di San Bernardino il 20 maggio. Questa era stata interrotta perché non c’era la campana. Infatti un temerario passando di là, vi tirò un’archibugiata e la ruppe. Ma presto questo atto vandalico fu punito dal destino, infatti costui nel giro di otto giorni venne ammazzato.
Alcune dicerie si basano sull’ubicazione della contrada lontana dal centro e fanno rimarcare il carattere chiuso ed un po’ spigoloso degli abitanti della cascina, ma anche la loro tenacia e la loro grande laboriosità; le più recenti definiscono “quelli al di là del ponte” i territori periferici verso la chiesetta, prendendo come limite dell’abitato il ponte della ferrovia.
Il simbolo con il cerchio di raggi fiammeggianti ricorda la tavoletta che San Bernardino mostrava ai fedeli, al termine delle sue prediche.

San Domenico

Antica cappellania di Legnano reca notizia di un vetusto convento La Collegiata sull’area attualmente sede delle scuole Mazzini. Nel suo territorio sorge ora il Museo storico-archeologico, ricostruzione fedele della casa avita di Oldrado II Lampugnani con rocchetta, salone d’onore soffittato in legno, portico e giardino.
Narrano le istorie che in remotissimi tempi “fussero duo conventi, l’uno situato nel borgo appo La Collegiata di San Domenico, l’altro oltre le mura appo La Clausura di Santa Caterina”. Un secreto cunicolo congiungeva i nominati conventi ed un fantasma vi si aggirava con fragor di catene e boati infernali onde tutta la gente n’era disturbata nei sonni.
Il padre guardiano volle mettersi allo imbocco del cunicolo al fine di liberare la contrada da cotanto discomodo. S’appostò pertanto al pertugio basso di volta e tenevasi a lato un bordone caso mai lo fantasma meditasse gettarglisi addosso.
Venne l’ora e la Cappella della Collegiata risonò dei dodici rintocchi de la campanella oratoria. Padre Bonino li contò ad uno ad uno e non essendo uomo d’aver paura si pose in attesa dell’avversario. Ed ecco che un gelido vento lo avvolge e una roca voce si diffonde nel pertugio con echi strani tra romor di ciotoli smossi.
“Fra Bonino”, dicea la voce, “io ti ringrazio d’esser venuto. Mai nessuno ha avuto pietà di me in tanti secoli. Io sono l’ombra del soldato Rodolfo Himmer rimasto insepolto il dì della Battaglia di Legnano. Un fendente mi stese a terra e gli zoccoli dei destrieri mi stritolarono, le mie ossa si sono confuse con la terra argillosa di questo cunicolo. Le troverai sotto la terza voltura, sono bianche, calcaree ed hanno bisogno di una verde sepoltura che mi ricordi i miei campi lontani, la mia terra, deponile, fra’ Bonino, sotto una delle verdi aiuole della Collegiata ed io non turberò più i sonni di questa contrada”.
Fra’ Bonino andò avanti, trovò le bianche ossa calcaree dell’antico milite e le seppellì sotto una bella aiuola di San Domenico e, non ricordando il nome del soldato o non riuscendo a scriverlo, pose sulla tomba verdeggiante una bandierina verde con due bianche ossa incrociate.
Così le strisce bianche su fondo verde rimasero come emblema perenne della pace riconquistata.

San Magno

Costituisce il cuore di Legnano con l’antica basilica disegnata dal Bramante. Ebbe funzioni di centro religioso della zona all’epoca di San Carlo Borromeo, il quale trasferì a San Magno il titolo di chiesa cattedrale, prima goduto da Parabiago.
La leggenda di San Magno coincide un po’ con quella della città, i colori di contrada sono anche i colori araldici di Legnano: il bianco e il rosso concretati in una ben definita insegna civica con la pianta e il leone rampante. L’albero è il gelso, utile alla bachicoltura, importato con le prime filande di seta azionate dalle acque dell’Olona.
Il leone rampante è simbolo d’assalto e di guerra e potrebbe collegarsi alla battaglia, se non ci fosse la leggenda.
In tempi remotissimi, dove adesso si apre la piazza cittadina, vi era isolato nella pianura un grosso cerro ed il campo, in cui il tronco sorgeva, era candido di neve, allorché un contadino, che lavorava quella terra, giunse una mattina d’inverno presso la pianta, da cui tagliava rami secchi per alimentare il suo focolare.
Nel candore quasi argenteo della neve la pianta forte e nodosa spiccava nel suo bruno colore. Il contadino la guardò compiaciuto e rivoltosi al cielo pensò:
“Quant’è forte questo cerro che resiste alla neve e al gelo; potessimo noi uomini resistere parimenti alle inclemenze della vita!”.
All’improvviso comparve la figura di uomo dall’aspetto ieratico e severo che rispose:
“Ho letto il tuo pensiero ed essendomi concesso nel giorno di San Magno, a me consacrato, di esaudire il tuo desiderio, io ti fortificherò come vuoi. Ti piacerebbe avere la forza di un leone, il coraggio di un leone, la potenza di un leone?”.
“Altroché”, rispose il contadino battendosi le mani sul petto villoso in verità già molto forte. “E che dovrei fare?”.
“Afferra quel coniglio che è lì vicino alla pianta ed uccidilo. Con il suo sangue cospargi la neve.”, disse il Santo.
Il contadino ubbidì, prese il coniglio, lo sgozzò e la neve divenne rossa per un largo tratto.
“Ora vai su quella neve insanguinata”, ordinò il Santo e ancora una volta il contadino ubbidì.
Ma appena posto il piede sulla zona rossa il contadino si accorse che le gambe non lo reggevano più, le sue membra erano diventate fulve e pelose, aveva quattro zampe provviste di artigli, una criniera fulva e ruggiva facendo risuonare tutta la pianura. Così sulla neve bianca stava una pianta, sulla neve rossa stava un leone terribile.
Il contadino avrebbe voluto ritornare un uomo, ma il santo gli disse:
“Ora rimani leone. La tua superbia lo ha voluto”.
E dicendo queste parole sparì.

San Martino

In questa contrada sono avvenuti ritrovamenti archeologici, cioè una tomba romana presso il ponte verso Castellanza, che testimoniano l’esistenza di antichi insediamenti abitativi nella zona. La chiesetta Oratorio di San Martino risale invece al ‘700.
La leggenda narra che un palafreniere, esercitando cavalli focosissimi, si perse nella boscaglia. Tornato indietro, si imbatté in un giovanissimo boscaiolo che raccoglieva legna.
“Ragazzo” disse il palafreniere “mi sai dire dove mi trovo e quale via devo prendere per tornare al mio re che mi aspetta?”.
Il boscaiolo tolse un virgulto ramo di gelso e con quello fece segno verso il cielo. Il palafreniere alzò lo sguardo e vide tra gli alberi un quadrato di cielo limpido e in mezzo una candida croce. Il legnaiolo fece segno nella direzione di uno dei bracci della croce e poi disse:
“vai sicuro dal tuo re e Dio ti protegga con lui”.
Il palafreniere voleva dare una mercede al giovinetto, ma questi non volle nulla in cambio, solamente il permesso per sé e per la sua gente di fregiare la casa e le vesti con la croce apparsa nel cielo. Quella fu il segno della gente di San Martino.
Un’altra più recente leggenda riferisce di un pastorello smarritosi per inesperienza nella pianura attorno alla cappella, sui cui ruderi sorse nel ‘700 l’attuale chiesetta, il primo giorno in cui aveva guidato le pecore al pascolo.
Quando ormai aveva perso ogni speranza e stava scoppiando a piangere impaurito, alzò gli occhi verso l’alto per implorare l’aiuto divino. All’improvviso una croce luminosa gli apparve nel cielo azzurro e gli indicò la giusta direzione.
La bandiera di contrada riproduce i colori di questo prodigio e reca anche l’immagine di San Martino a cavallo nell’atto di dividere il suo mantello con il mendicante.

Sant’Ambrogio

Il “tesoro” portato dal Vescovo Leone da Perego, sepolto secondo la tradizione nella chiesa di Sant’Ambrogio, lì rimase e non venne più trovato. Sotto il pavimento della chiesa resti di muro e sepolture, risalenti forse al V Secolo, attestano l’antichità dell’insediamento come luogo di culto.
Nei pressi della chiesa la civiltà contadina aveva soprannominato uno dei cortili “Ul Burgu di Maragasc”.
La leggenda di Sant’Ambrogio è particolarmente tenebrosa, ma la conclusione zampilla una luce veramente d’oro fiammante.
Vi era adunque un vecchio demonio, che aveva la strana abitudine di farsi vedere nel rione una volta all’anno il giorno 9 Febbraio. Era singolare nell’abbigliamento: indossava infatti, un lungo, logoro mantello verde scuro su un corpo giallo color zolfo e per di più era afflitto da cleptomania. Dopo aver traversato le vie del rione, soffiando come un mantice e lasciando ampie tracce sulla neve, penetrava nella sacrestia della chiesa e vi prelevava un candelabro che, al contatto delle sue mani si torceva come una serpe. Con il suo prezioso bottino il diavolo usciva trionfante e scompariva nella notte gelata accompagnato da un gran fragore di catene e di tuoni.
Il parroco, stanco, pensò a uno stratagemma: infilò nella serratura della porta una coroncina del rosario così che quando il diavolo tentò d’aprire con una delle sue mille chiavi false, incontrò l’ostacolo e fu costretto a levarlo con le dita. Ma non appena toccò la coroncina benedetta, il diavolo cominciò a tremare, a dibattersi ed alla fine si sgonfiò come un palloncino. I parrocchiani trovarono la mattina dopo la sua pelle gialla, secca come quella di un ramarro, stesa sul manto verde aperto sulla candida neve gelata.

Sant’Erasmo

La contrada di Sant’Erasmo ha antichissime origini storiche e la sua leggenda è collegata ai tempi che precedettero immediatamente la Battaglia di Legnano.
La leggenda sboccia intorno al Mille ed è collegata al convento di Santa Caterina, ove abitò e scrisse fra’ Bonvesin de la Riva, “que sta im borgo Legnian”.
Ogni giorno sparivano dal convento dei pani e dei salamini destinati alla mensa frugale dei frati così che, quando dovevasi distribuire il pasto, mancava sempre qualcosa.
Chi poteva avere il coraggio d’introdursi nella dispensa per un furto di così lieve entità?
Il padre superiore, che si chiamava fra Bernardo Paletta, dispose un servizio di guardia onde sorvegliare le capaci scansie della dispensa. Ecco subito al primo mattino che fra Camillo, il quale era il naturalista del convento, vide entrare un corvo. Aveva le penne così nere e lucide da riflettere l’azzurro del cielo, che penetrava dal lucernario della grande cucina.
Il frate vide il corvo avvicinarsi e prelevare con il becco un pane rotondo e una piccola forma di cacio. “Ecco il ladro!”, disse fra Camillo dando l’allarme, e tutti i frati, escluso fra’ Glicerio che aveva la gotta, si misero a rincorrere il corvo, che svolazzò fuori all’impazzata. I frati più giovani seguirono affannosamente il volo e videro che il corvo si dirigeva verso una piccola altura nel mezzo della quale era stesa una tovaglietta candida quadrata ed intorno tre venerandi vecchioni, dimessi, ma lieti, i quali al giungere del corvo presero il pane e il cacio, se li divisero benedicendoli ed infine li consumarono serenamente; nel frattempo il corvo si riposava al centro della tovaglia bianca.
Vicino all’altura c’era una cappelletta con l’immagine di Sant’Erasmo ed i vecchioni ne erano i devoti custodi. Visto il prodigio, i frati si diedero ad aiutare i tre vecchi e così ebbe inizio la costruzione del primo ospizio Sant’Erasmo che ebbe come bandiera la tovaglietta bianca al cui centro riposava il corvo con le ali azzurre.

Legnarello

Come si legge in uno dei primi documenti dell’archivio cittadino, in data 1776,”Comune di Legnano, con Legnarello Pieve di Olgiate Olona”, l’antico Leunianellum era un paese a sé oltre il corso dell’Olona: le esondazioni del fiume non permettevano infatti agli abitanti di scendere in città.
E’ detto anche “Paes dul vintun” o perché durante la peste, che infuriò nella prima metà del Seicento, si salvarono proprio ventun persone, oppure perché viene ricordata una celebre beffa giocata ai danni dei legnarellesi nel 1821. Legnarello ebbe, addirittura, un ufficio postale proprio, che funzionò dall’aprile all’ottobre del 1850.
La leggenda narra che i colori di contrada si ispirano a quelli spagnoli, in quanto l’idalgo Don Pedro de Torquemada, in tempi remoti, a causa delle lotte politiche, pare si riparasse dietro le alture dei Ronchi. Qui appostò le sue milizie ed alzò bandiera giallo rossa, i suoi colori. Infatti aveva l’abitudine di vestire cappa per la metà rossa e per la metà gialla con feltro e pennacchio ugualmente variopinti «sì che era visibilissimo agli nemici», ma per una protezione divina neanche i più franchi tiratori riuscivano ad aggiustargli un tiro d’archibugio. Sopravvissuto grazie alla sua invulnerabilità, fondò sul monticello la propria stabile sede e lasciò ai discendenti che conservassero negli anni a venire la bandiera issata.
La festa del rione cade il 2 febbraio e conserva le caratteristiche purificatorie e penitenziali dell’antichità. E’ detta Candelora in quanto vi si benedicono e si distribuiscono ai fedeli candele simbolo di protezione contro le calamità. Nel significato pagano il cero acceso rappresenta il fuoco vitale che prepara la primavera, in quello cristiano invece è segno di partecipazione alla luce divina.